138

un'opera d'arte di Stefania Bressani è appiccicata sul muro che divide Israele e Palestina

Il dono d’arte n.138 è stato abbandonato sul muro israelo-palestinese presso il campo profughi di Aida in Palestina nell’agosto 2016.

un graffito con la scritta "justice" sul muro Israele-Palestina con sopra un dono d'arte

L’autobus era una macedonia di anime: donne con delle sporte della spesa enormi, uomini baffuti con la camicia fresca di stiro e ragazzi aggrappati al proprio cellulare. A me piaceva osservare quelle ragazze allegre che ridacchiavano sotto i loro veli. Il suono pneumatico dell’apertura delle porte indicò ai passeggeri la fine della corsa. Tutti scesero dall’autobus.  

Conoscevamo quel luogo dalle immagini della TV ma ciò che ci si propose di fronte fu come uno schiaffo in piena faccia.  

Il muro era più alto, più grigio, più inquietante di quanto pensassimo.  

Otto metri di cemento armato, piccole strisce verticali accostate minuziosamente le une alle altre creavano una barriera invalicabile tra Occidente ed Oriente. In cima, il muro, aveva dei ferri piegati a gomito che sostenevano reti e filo spinato, affinché quella parete altissima risultasse ancor più minacciosa di quanto già non fosse.  

Sulla parte alta, al centro di ogni blocco, c’era una specie di foro perfettamente tondo, probabilmente un tecnicismo funzionale al montaggio più agevole della struttura.  

Quel buco però caratterizzava fortemente il muro, era forse quel particolare a renderlo inconfondibile tra un milione di muri: quel foro teneva in pugno milioni di vite, di ideali, di culture e di preghiere diverse, sessant’anni di leader politici, di accordi internazionali, di guerra e di storia. 

Ai piedi di quella parete grigia c’era una rotatoria; Il nostro autobus la stava percorrendo veloce, con la solerzia di chi desidera lasciare al più presto quella terra di confine. 

Nella rotonda campeggiavano grossi fiori di ferro. Sculture dalle forme tozze e molti colori, rappresentavano il fallimento di un’idea: rendere meno angusto quel posto. 

Imboccammo la rotonda sulla destra fino a raggiungere un grosso cancello. Proseguimmo il nostro cammino all’ombra di quell’altissimo muro ma a pochi passi dal cancello un uomo in mimetica e mitra alzato ci venne incontro.  

Ora, per questa cosa del mitra non vi dovete spaventare più di tanto: se questo fatto fosse successo in Italia probabilmente mi sarei squagliata dalla paura ma qui in questa terra, dove ogni metro quadro è sacro a qualcuno, tutto assume una prospettiva differente.  

A Gerusalemme soggiornavamo presso la Porta di Damasco. Ogni giorno

percorrevamo la strada che collega la porta al Muro del Pianto almeno otto volte al giorno. Ogni volta incontravamo tre o quattro capannelli di soldati israeliani armati fino ai denti. Ogni giorno le nostre borse venivano controllate innumerevoli volte presso i due check-point nei pressi della Spianata del Tempio e sovente venivamo perquisiti.  

Tutto diventava ordinario: ci si anestetizza dopo in po’ e non era raro chiedere informazioni turistiche a questi ragazzi e ragazze oppure addentare un panino con falaffel seduti in un bistrot ad un metro dalla loro attenta supervisione.  

Ma torniamo a noi, e a quella volta in cui a me e Pedro puntarono il mitra a pochi centimetri dai nostri nasi. Sorrisi, come mi aveva insegnato Tiziano Terzani nei suoi libri.

– Dove state andando?-

– Alla Tomba di Rachele – risposi tenendo le braccia ancora alzate.

– Non potete camminare nei pressi del muro, è pericoloso – disse il ragazzo che nel frattempo aveva abbassato l’arma.

Abbassammo le braccia anche noi mostrandoci delusi dalla notizia. L’attenzione del ragazzo però si era spostata sulle automobili in transito. Ad alcuni bastava uno sguardo ed un cenno di saluto, mentre altri autisti, più timorosi, si fermavano aspettando il consenso del militare.

Tutte le macchine erano colme di persone di ogni età: generazioni differenti, vestite con tradizionalissimi abiti ebraici, si recavano presso quel luogo sacro in preghiera. D’un tratto il militare parve fermare con maggior decisione l’ennesima auto. Dopo un breve dialogo tra lui e la ragazza alla guida, si voltò verso di noi e sorridendo disse:

– Salite! –

Durò una frazione di secondo l’incrocio dei nostri sguardi, un saluto il ragazzo con un cenno di ringraziamento e poi dentro nell’auto.

un'opera d'arte di Stefania Bressani è appiccicata sul muro che divide Israele e Palestina

Ci trovavamo nell’intercapedine del muro, davanti all’ingresso Tomba di Rachele. I muri insomma, come a Berlino, erano due. Quelle pareti altissime circondavano noi e tutti i pellegrini mostrandoci solo una porzione di cielo sufficiente a scottare le nostre pelli col calore del sole di mezzogiorno. Sulla parete alla nostra sinistra

c’era una torretta rotonda incastonata nel muro. In cima si allargava come fosse una casa sull’albero ed aveva aperture per tutto il suo perimetro e poi, in alto, era coperta da un tetto, tondo pure quello.

A quel punto io e Pedro ci salutammo, mi coprii il capo ed entrai nell’area dedicata alle donne. Il santuario non aveva nessuna architettura che sottolineasse l’importanza del luogo: era una semplice struttura di pietra bianca liscia, aperta sul mondo da diverse porte.

La prima stanza fungeva da filtro tra l’esterno e l’interno. Le ragazze e le donne dalla pelle arrossata dal sole chiacchieravano sorridenti. Si scambiavano oggetti e cibo ed alcune sostavano in attesa di chi fosse ancora all’interno. La seconda stanza invece era dedicata alla preghiera. Era uno stanzone molto lungo, scarno alle pareti ma a metà di esso c’era di traverso un’oggetto enorme in pietra, ricoperto da una stoffa nera ricamata d’oro e, cosa ancor più strana ai miei occhi, ricoperta in plastica trasparente come a non rovinare il tessuto sottostante. Quella plastica contemporanea strideva con l’antichità e la solennità di tutto il resto ma soprattutto tradiva quell’idea del giudaismo come religione antichissima.

Mentre le nenie delle preghiere ebraiche si alzavano verso il cielo, io pensavo alla figura di Rachele che piange per i figli partiti in esilio; Rachele esiliata in quest’utero di cemento dai suoi stessi figli.

Osservato tutto per bene uscii da quelle stanze ombrose per ritrovarmi sotto il sole.

“Trovala tu ora un’auto disposta a caricarci fino al cancello” pensammo. Fermammo diversi uomini, di quelli col cappello a tesa larga, vestiti di tutto punto anche sotto la canicola d’agosto e con gli inconfondibili riccioli alle tempie.

Nulla.

Alcuni ci indicavano col dito le loro numerose famiglie facendoci intendere che erano già carichi, altri non desideravano dare confidenza a due minacciosi turisti o più semplicemente non capivano il nostro “inglese britannico”.

Rientrammo alla fermata dell’autobus accompagnati da una coppia di mezza età più diffidente che disponibile. Tornammo alla rotonda ed i fiori di ferro apparvero ancora più tristi di quanto mi fossero sembrati all’inizio.

Capitò poi che scorgemmo sul lato destro un grande prefabbricato bianco. Attorno era circondato da reti e su di esse c’erano appesi dei cartelli gialli in arabo e giudaico. Tutti i mussulmani andavano in quella direzione: ci entravano le donne con la sporta della spesa enorme; ci accedevano gli uomini con i baffi e le camicie con le pieghe fresche di stiro; ci si infilavano le ragazze ridacchianti sotto al velo e ci si ficcavano i ragazzi aggrappati ai loro cellulari.

Camminavamo verso l’ingresso dello stabile. Alla sinistra dell’ingresso c’erano tre militari schierati. Feci un passo verso di loro e quello al centro anticipò il mio movimento, venendomi incontro. Chiesi se una volta entrati ci avrebbero fatto ritornare e con la testa, il soldato fece cenno di si.

Passaporti alla mano, passammo i due check-in. Uno in uscita da Israele ed uno in ingresso per la Palestina. Pochi metri separavano due popoli diversissimi tra loro. Come al solito svuotammo le nostre tasche e appoggiammo le borse lungo il

nastro magnetico. Quella volta i controlli mi preoccuparono più del previsto perché stavamo valicando uno dei confini più caldi della contemporaneità. Eravamo gli unici turisti in quello stabile e ci stavano facendo un’ispezione certosina.

La vigilanza ci lasciò passare.

Uscimmo in un cortiletto: alle spalle avevamo lasciato il prefabbricato bianco, a destra e sinistra l’area era chiusa da reti e di fronte a noi si stagliava, altissimo, il grigio cemento del muro con al centro una piccola porta.

Entrammo e contemporaneamente uscimmo in un altro mondo. Fu davvero una sensazione strana: l’ambiente era completamente diverso. Ci trovavamo in un corridoio in discesa, all’aperto, coperti da una tettoia in plexiglass come quelle delle pensiline degli autobus sulle linee di periferia. Per le persone che camminavano nella direzione opposta, il corridoio di fianco al nostro era in salita e fornito dello stesso sudicio tetto.

Ci stavamo addentrando in una terra che avevamo conosciuto solo per le notizie raccontate dalla stampa internazionale. Non avevo paura “del diverso” ma solo di essere in un posto sbagliato per me e per loro. Il sole però era alto e in fondo, pensai, batteva con la stessa intensità ed era il medesimo astro di pochi minuti prima, nulla ci sarebbe potuto accadere.

Compiendo gli ultimi passi in uscita dal corridoio, posai lo sguardo sul terreno là fuori: era sporco e pieno di piccoli biglietti di carta rettangolari e rifiuti di cibo, gettati alla rinfusa.

Pedro, che camminava di fronte a me, venne assalito da alcuni ragazzotti. Tutti parlavano gesticolando, roteavano le mani a pochi centimetri dal suo corpo cercando di attirarne l’attenzione.

Guardai oltre la fine del corridoio e sorrisi con sollievo. Era pieno di macchine gialle e quei ragazzi erano altro che tassisti in cerca di una corsa. Successe anche in Nepal e quella sensazione di timore venne sostituita dal ricordo di un altro viaggio. Mi avvicinai e venni assalita di mia volta dalle insistenti richieste.

Continuavamo a negar loro una corsa (prendere un taxi sarebbe significato tradire la nostra idea di viaggio) ma d’un tratto le cose cambiarono.

Assieme ai ragazzi si avvicinò un uomo più anziano. Aveva circa 55 anni, qualche capello bianco e faccia tozza. Assomigliava ad una specie di Stalin dai colori più saturi.

Quando gli altri ragazzi videro che stavo parlando con lui, smisero di fare offerte a ribasso per la loro corsa e cercarono, in un inglese elementare, di convincermi a prendere il taxi di quell’uomo.

Lo guardai per un istante negli occhi. Aveva uno sguardo buono. Pensai a quanta violenza avessero visto quegli occhi e che, nonostante tutto, il suo sguardo si era mantenuto da uomo mite. Chiamai Pedro e dissi che quella persona aveva bisogno di lavorare per noi.

Da bravi europei che non capiscono nulla di politica internazionale, chiedemmo all’uomo di essere portati in quella parte del muro dove c’erano i graffiti di Bansky. Egli offrì una visita guidata a Betlemme ma noi insistemmo sulla nostra tratta.

Dono d'arte appiccicato presso il muro che divide Palestina e Israele
dono d’arte n. 139, abbandonato vicino al n. 138

La situazione fu alquanto comica perché credo che, in tutto, il tragitto fosse lungo circa 2 km. In qualsiasi parte del mondo i tassisti si dimostrano sempre geni assoluti del marketing. Non c’è niente da fare se non divertirsi e godere di questa loro spiccata dote.

L’uomo si fermò a fare benzina e ne approfittammo per scattare qualche fotografia. Il muro da questo lato era variopinto. Diversi disegni e graffiti si intersecavano tra loro in stratificazioni arcobaleno. Ciò che mi colpì fu il ritrovare uno straccio incastrato tra il filo spinato nella parte alta del muro. Era un grande monito per la popolazione: come se nulla, nemmeno la libertà di un aquilone in volo, potesse superare quel confine invalicabile.

Risalimmo in quella macchina gialla che avrà avuto circa 25 anni: possedeva un design solido e squadrato ed i sedili in pelle nera; testimoniava silentemente i tempi in cui il benessere non avesse dimenticato quel luogo.

L’autista si allontanò dal confine per infilarsi in una strada stretta. Sul lato della recinzione in muratura della casa campeggiava la scritta “Welcome to Aida camp

-1948”. Da settant’anni quel pezzo di mondo vive sospeso nell’incertezza. Non può dirsi una città anche se ne ha tutto l’aspetto.  È un campo profughi ed il suo divenire è tutto in equilibrio precario.

L’uomo continuava a gesticolare e parlare in un inglese semplice ed un tono di voce alto come per farsi comprendere di più. Ci segnalava ogni disegno sul muro classificandolo come Bansky, anche quando un occhio inesperto avesse potuto capire che non era mano dell’artista per via del contorno incerto. Scivolammo nelle

viuzze fino a ritornare ai piedi del muro. Passammo sotto un arco moresco, rosso e bellissimo con sopra una chiave.

L’auto si fermò a fianco di una discarica. Il nostro autista scese per raccontarci una storia.

“Vedete, questo non è di Bansky ma per noi è il più importante: racconta la storia dell’intifada. Vedete quei soldati? stanno portando via un ragazzo, e quella è la madre che volendo impedire l’arresto è stata sbranata da un cane. Venite qui … questi sono i nomi dei ragazzi morti negli scontri”, disse indicandoci una lapide incisa con delle scritte in arabo ed il perimetro della Palestina.

Ci invitò a proseguire camminando fino ad arrivare nei pressi di un muretto basso: “questo è il nostro cimitero, guardate”!

Quel luogo appariva più come una trincea che come un cimitero: era più basso della strada; le tombe avevano l’altezza delle persone e i vialetti per arrivare ad esse erano molto profondi. Su tutte le lapidi c’erano diversi bussolotti argentei. Luccicavano alla luce del sole disegnando un firmamento inquietante.

“Cosa sono quelli?” chiesi indicando.

“Bullet (proiettili)”.

“Li sparano da li, quasi ogni giorno”. Osservammo oltre l’indice dell’uomo la torretta incastonata nel muro e poi, rammaricati, abbassammo gli sguardi.

Eravamo venuti qui carichi della nostra superficialità occidentale per vedere i graffiti di Bansky e quest’uomo ci stava consegnando la sua storia, la storia di un Popolo come mai viene raccontata.

Osservai ancora una volta il muro vergognandomi per la totale impotenza di fronte a tutto questo.

“Andiamo, su, il giro non è finito” disse.

L’auto percorse ancora 200 metri e poi si fermò. L’autista scese e noi lo imitammo. Usciti dal veicolo la strada era costeggiata solo da un lato di case. Ai nostri piedi partiva una enorme distesa di macerie. C’erano rifiuti urbani, tondini arrugginiti e ripiegati su se stessi ma soprattutto molte, moltissime grosse pietre bianche spaccate.

“Potete avvicinarvi e fare foto” disse, “Vi aspetto più giù”; risalì sull’auto e se ne andò.

Sulla parete del confine c’era disegnato con la vernice nera un uomo, stilizzato e sdraiato. Fatto anch’esso da strisce verticali con il buco in alto, evocanti il muro. Scavalcammo le macerie in un punto dove l’agglomerato si faceva più stretto e pareva che qualcuno avesse già camminato.

Arrivammo sotto quell’immensa parete. Le macerie erano finite e lasciavano uno spazio di confine largo due metri nei pressi del muro, una specie di area neutra. Erano il luogo ed il momento adatto per lasciare i mei doni. Estrassi dallo zaino i mei due libri infiniti, la macchina fotografica e del materiale removibile per fissare al muro la mia opera.

La lunghezza del corpo di quell’uomo disteso era percorsa da un nastro azzurro, anch’esso dipinto. Sopra di esso la scritta BETHEHEMAFFINATION . COM

stay human –  justice – will – prevall. Ci colpirono subito le parole: attraverso di esse potevamo associare le nostre creando così nuovi messaggi. Selezionai la pagina adatta, fissai il dono d’Arte e scattai.

GOD STAY HUMAN e successivamente JUSTICE IS ONE.

un graffito sul muro Israele Palestina con la scritta "stay human" con un dono d'arte abbandonato sopra
Dono d’arte n 139, abbandonato vicino al 138

Avevo lasciato il mio contributo sul muro di confine tra Palestina ed Israele, il mio lavoro restava sospeso tra quello di grandi e piccoli artisti arrivati fin qui per testimoniare solidarietà attraverso le immagini. Avevo lasciato un segno del mio passaggio attraverso il linguaggio del dono. Un piccolissimo gesto dal potere infinito.

La mia gioia era immensa e si mescolava alla consapevolezza di aver incontrato un palestinese, un mussulmano, un profugo ma soprattutto un Uomo assai più simile a me di quanto potessi mai immaginare.